Introduzione alle lettere di Paolo

Per Paolo di Tarso, il fondatore, insieme all’apostolo Simon Pietro, del cristianesimo primitivo, il giudaismo era «ombra delle cose future», e queste cose altro non erano che la «sua» teologia mistica, ch’era, a sua volta, una radicalizzazione della teologia politica che il galileo Pietro aveva elaborato al cospetto della tomba vuota, parlando di «morte necessaria» (voluta da dio) e di «resurrezione» (corpo ridestato).

Oggi è diventato lo stesso «cristianesimo» un’«ombra delle cose future», e queste altro non sono che l’umanesimo laico e il socialismo democratico. Le quali hanno preso a formarsi, tra mille errori e contraddizioni, anche di una gravità eccezionale, seguendo un percorso spesso imprevedibile, ma sempre in linea con l’esigenza di recuperare qualcosa che si è perduto e di cui non si può fare a meno.

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Il lato conservatore della teologia paolina sta proprio nella distinzione che viene posta tra Cristo e Dio, tra dio-padre e dio-figlio. Se Paolo avesse semplicemente detto che in Cristo vi è l’interezza dell’umano, l’originaria dimensione umana di cui noi abbiamo perduto memoria, non avrebbe fatto né un discorso politicamente rinunciatario, né alcun discorso di tipo teologico.

Se Cristo infatti rappresenta l’umano, qualunque concezione della divinità gli è già propria, cioè è già inclusa nell’umano.

Paolo non s’è reso conto che se Cristo fosse stato un «suo discepolo», difficilmente avrebbe portato la predicazione ricevuta alla più tragica conseguenza, quella appunto della crocifissione. Infatti se la realizzazione dell’identità umana non è possibile su questa Terra, a causa del peccato originale e delle sue conseguenze, dilatatesi e approfonditesi nel tempo a livello planetario, sarebbe stato sufficiente limitarsi a dirlo, senza bisogno di insistervi sino al punto da desiderare il martirio, o comunque questa soluzione estrema sarebbe rimasta una scelta meramente privata, un’eccezione alla regola, quella regola che era, e che ancora oggi è, della «rassegnazione metafisica».

Contro Paolo ce l’avevano i pagani politeisti e gli ebrei nazionalisti: gli uni lo accusavano, col suo monoteismo, di predicare una sorta di ateismo, in quanto il suo dio-padre restava rigorosamente invisibile, e nell’idea di resurrezione del Cristo (unica vera immagine di dio) bisognava credere come se fosse non una cosa simbolica, ma una realtà oggettiva. Gli ebrei invece lo accusavano di voler togliere a Israele la speranza di diventare una nazione libera dallo straniero.

Tuttavia, una volta distrutta Gerusalemme (nel 70 e poi di nuovo nel 135), veniva meno anche la necessità di trovare un accordo politico col giudaismo. Non restava che l’esigenza di trovare un accordo religioso col paganesimo, che sicuramente sarebbe stato molto più facile dell’altro, come poi la storia si preoccuperò di dimostrare, benché anche in questo caso i tempi dell’intesa furono piuttosto lunghi, essendo il politeismo una tradizione culturale molto radicata nelle società e civiltà basate sullo schiavismo e sul servaggio.

Il cristianesimo paolino riuscirà a convincere i pagani ad abbandonare tutti i loro dèi e ad accettare, in forma più ateistica (ch’era poi quella maturata negli ambienti ebraici), l’idea di un unico dio invisibile e irrappresentabile, nonché l’inedita idea di un figlio unigenito di dio morto e risorto, a lui consustanziale e nello stesso tempo incarnatosi come uomo (idea inedita in quanto la resurrezione andava intesa in senso letterale e non metaforico, come invece per altri culti pagani).

Se Paolo si fosse limitato a dire che non esiste alcun dio e che il Cristo aveva accettato di morire in croce non tanto per redimere gli uomini dal peccato originale, quanto per insegnare la necessità della democrazia, utile soprattutto quando si vuole compiere qualcosa contro l’oppressione, avrebbe fatto un discorso ateistico più coerente e avrebbe lasciato aperta la strada a soluzioni politiche rivoluzionarie.

La divinità è tutta racchiusa nell’umanità e, poiché la condizione naturale dell’umanità è quella terrena, almeno in quello che definiamo l’orizzonte storico, è proprio in questa dimensione che bisogna cercare di viverla, anche a costo d’essere «crocifissi». La «croce» è l’onere di cui eventualmente ci si deve far carico se, nel voler vivere la propria umanità in maniera integrale, hic et nunc, s’incontrano opposizioni risolute.

Se Paolo avesse detto questo, il problema sarebbe diventato un altro, e cioè quello di come affrontare l’illusione di credere che per dimostrare la propria umanità sia sufficiente farsi crocifiggere. Una cosa infatti è resistere all’oppressione, un’altra è provocare l’oppressore, facendo sì che ci si possa vantare della propria condizione d’oppresso, accampando pretese di verità e di giustizia, che di umano e di democratico non hanno proprio nulla.

Vittimismo infatti vuol dire fare dell’oppressione e soprattutto del martirio una sicura testimonianza di verità, a prescindere da qualunque altro comportamento.

L’unico modo razionale di tentare di uscire da questo rischio, da questo abuso della credulità, è quello di vivere la propria resistenza non in forma individuale, ma collettiva, misurando sempre l’entità delle forze in campo e chiedendosi continuamente se le esigenze dell’umano vengono rispettate in maniera adeguata. Se un perseguitato, solo perché tale, si sente migliore del proprio persecutore, è naturale che, nel caso in cui riesca ad andare al potere, assuma atteggiamenti anche più odiosi del proprio persecutore. Basta vedere cosa fece il cristianesimo dopo che, con Teodosio, divenne «religione di stato».

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Se Paolo oggi fosse vivo sarebbe inevitabile porgli la seguente domanda: «Anche ammesso e non concesso che una liberazione effettiva su questa Terra non sia possibile, deve per forza esserci un dio-padre e un dio-figlio?».

Il cristianesimo ha voluto prendere alla lettera la questione della generazione ab aeterno, senza rendersi conto che se proprio si voleva trasferire nei cieli l’idea terrena di «famiglia», sarebbe poi stato impossibile sottrarsi all’osservazione critica di chi avesse ipotizzato che non la famiglia terrena è un riflesso di quella celeste, bensì il contrario (cfr p.es. l’opera di Feuerbach).

Peraltro una teologia davvero «democratica» avrebbe dovuto prevedere un ruolo femminile equivalente a quello di «dio-padre», sottraendo il misticismo all’egemonia del maschilismo. Se non esiste una «dea-madre», come può essere generato un «dio-figlio»? e poi perché generare un «dio-figlio unigenito» e non anche una «dea-figlia»? e perché non tanti «dèi-figli»?

Tutta la teologia cristiana, inclusa quella che s’è sforzata di vedere nello spirito santo una delle due «mani» di dio (intendendo l’altra il figlio), ovvero il lato «femminile» della trinità, resta profondamente maschilista (e politicamente monarchica). Una qualunque «teo-logia», cioè un qualunque «discorso-su-dio», non ha alcun senso razionale: l’uomo non può avvilupparsi in considerazioni che, in ultima istanza, restano del tutto indimostrabili o comunque non pertinenti alla propria esigenza di laica umanità.

Accettare, come presupposto gnoseologico, la presenza di una divinità, significa negare all’uomo la libertà di coscienza. O la divinizzazione è parte costitutiva dell’essere umano, oppure dio non esiste. Una qualunque ammissione della sua esistenza fa perdere all’uomo la sua autonomia, proprio in quanto diventa impossibile non arrivare a utilizzare le contraddizioni umane per sostenere che solo dio ne è privo e quindi può risolverle. L’esistenza di un dio assolutamente perfetto è una tentazione troppo grande per chi vuole rassegnarsi al male su questa Terra. Il che ovviamente non vuol dire che il credente sia un grande peccatore: «credere in dio» in fondo vuol dire – per tutte le religioni, non solo per quella cristiana – sforzarsi di tenere un comportamento degno, in previsione di un premio ultraterreno, a prescindere dall’intenzione che si ha di lottare in maniera più o meno convinta contro le ingiustizie sociali.

Resta tuttavia un fatto, abbastanza assodato, salvo eccezioni naturalmente. Di fronte ai peccati altrui, il credente, in genere, pecca di omissione, in quanto chiede, a chi li subisce, di pazientare sino alla fine dei giorni, sino al «giudizio universale». Anche quando s’impegna politicamente come cittadino, il credente parte sempre dal presupposto che gli antagonismi sociali non sono risolvibili sino in fondo, o comunque sono componibili solo parzialmente. La mediazione, che il credente cerca in politica, è solo uno strumento per attenuare, non per risolvere, gli opposti estremi. Anzi, nel peggiore dei casi, quello in cui si vuol fare del fondamentalismo dogmatico una regola di vita, è la stessa religione che si pone come uno degli estremi. E questo è tanto più vero quanto più essa si caratterizza in senso «monoteistico».

Autore: laicusblog

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