Quale politica umana e democratica ispirandosi ai Vangeli? Mc 9,33-37

[33] Giunsero intanto a Cafàrnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?».

[34] Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.

[35] Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».

[36] E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro:

[37] «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

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A titolo di conferma di quanto appena detto, qui si può osservare che il redattore, precisando che gli apostoli si vergognavano di spiegare a Gesù l’argomento della loro interna discussione, vuole far notare, seppur con l’ambiguità tipica di una qualunque lettura «religiosa», che il concetto di potere politico che aveva Gesù era assai diverso da quello tradizionale. Ecco perché essi non risposero alla sua domanda su cosa stavano discu­tendo.

Ma egli, intuito il problema, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (v. 35).

Questo può apparire un consiglio moralistico. Come se l’umiltà fosse una virtù politica! Politici spregiudicati alla Machiavelli la considerano al massimo una tattica per acquisire proprio il potere politico, da amministrare poi con criteri tutt’altro che democratici. Nel migliore dei casi la ritengono un ostacolo insormontabile a una qualunque gestione della «cosa pubblica».

In realtà, l’umiltà richiesta nel brano di Marco è più di un semplice sforzo di abnegazione personale, è piuttosto una sorta di verifica della stretta coincidenza di valori umani e valori politici. Essere «servo di tutti» implica un rapporto sociale caratterizzato dalla democraticità. Nel senso cioè che quanto più un individuo aspira al potere politico, tanto più deve dimostrare di possedere una grandissima umanità. E l’unica possibilità di dimostrarlo è quella di mettersi al servizio della collettività, ascoltandone le esigenze.

«E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (vv. 36-37).

Che significa? Semplicemente che nessuno può mettersi al servizio degli altri se non ha la semplicità, la disponibilità di un bambino. La persona orgogliosa, prepotente, intollerante… potrà anche essere un ottimo politico secondo i canoni tradizionali delle società antagonistiche, ma essendo una nullità sul piano umano, lo sarà anche come «moderno» uomo politico.

Oggi le qualità democratiche di uno statista non è possibile misurarle né sulla base delle sue capacità di «mediare» i contrasti, i conflitti di classe o d’interesse (poiché ciò può degenerare nell’opportunismo o nel trasformismo più bieco, stante l’attuale sistema politico), né sulla base della sua familiarità al sacrificio, all’abnegazione personale (poiché ciò rischia di avere un valore solo temporaneo, transitorio, in attesa appunto di conseguire il potere agognato). Oggi un politico può essere considerato veramente democratico solo nella misura in cui si sa confrontare con gli interessi reali della popolazione (soprattutto di quella locale, che è l’unica a potergli impedire di dire una cosa e farne un’altra).

Naturalmente il fatto che un politico debba concepirsi al servizio della cittadinanza, non significa che deve restarne in balìa, soggetto alle varie pressioni corporative: non è il numero che di per sé fa la democrazia. Piuttosto il politico deve dialettizzare con la gente, confrontandosi di continuo, discutendo sulle questioni più rilevanti… La verità delle cose non sta né dalla parte del politico, né dalla parte della gente: essa è un processo in itinere, in cui ognuno può rivendicare una partecipazione paritetica.

«Giovanni gli disse: Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri» (v. 38).

Incredibile che Giovanni abbia detto una frase di questo genere, poiché era troppo intelligente per poter credere nel valore degli esorcismi; però essa è indicativa di un atteggiamento sbagliato: quello di voler egemonizzare il diritto alla verità, trasformandolo in privilegio. Il monopolio della verità si trasforma sempre, sul piano politico, in una dittatura. Per evitarlo, i cittadini che eleggono i loro rappresentanti dovrebbero prima verificare il loro atteggiamento nei riguardi delle opinioni altrui.

Giovanni impediva a quell’uomo di fare del bene solo perché non li seguiva. La logica politica degli schieramenti, la coscienza di classe senza coscienza dei valori umani universali possono appunto portare a considerare «cattiva» un’azione «buona». È anche il pericolo di tutti coloro che, militando nei partiti politici, tendono ad allontanarsi dalle masse, rapportandosi solo o alle istituzioni del sistema o ad altri partiti. Che il rischio sia reale, è dimostrato anche dal fatto che quando i movimenti popolari (di base) cercano di confrontarsi coi partiti, questi spesso tendono (proprio come fanno le istituzioni) a strumentalizzarli o a fagocitarli o ad ignorarli completamente.

«Ma Gesù disse: Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi» (vv. 39-40).

In questo senso, mali come il fanatismo e il settarismo colpiscono, nell’ambito dei partiti, anche i più grandi «mediatori» e diplomatici della politica. Nessun politico ha la sicurezza di non essere condizionato da questa logica perversa dello schieramento, almeno sino a quando non è costretto a misurarsi con una realtà che non rientra nei tradizionali schemi di impegno sociale o di presenza politica. Ma deve esservi «costretto» da una realtà davvero significativa, altrimenti l’umiltà costa troppa fatica.

Gesù fa capire ai Dodici che il «bene» può provenire da diverse parti, che la verità ha sempre mille sfaccettature, che si può essere anche solo «simpatizzanti» di un movimento. Ma come individuare queste persone? Come distinguere un’azione «positiva» da una «negativa»? Tutti sanno che non esiste nella realtà un criterio discriminante valido a priori. Spesso cose in sé positive o che almeno sembrano tali, si rivelano negative alla prova dei fatti, oppure restano positive solo per un certo periodo di tempo. Se un’azione è «buona» o «cattiva» lo si vede soltanto dagli «effetti» che produce. Le migliori qualità umane sono quelle che si verificano al momento di correggere gli errori, le deviazioni, le storture che continuamente caratterizzano la nostra attività. Non si può impedire a una persona di esprimere le proprie idee o di agire in un determinato modo solo per timore che le conseguenze delle sue parole o delle sue azioni siano negative. Si può discutere, si può ragionare, dimostrando, sulla base dei cosiddetti «precedenti», che l’applicazione di determinate idee può portare a esiti sfavorevoli, ma l’individuo, alla fine, deve essere lasciato libero di verificare le proprie idee, anche se dovrà rispettare la volontà opposta della controparte (specie se questa è maggioritaria). Naturalmente, se l’individuo in questione è uno statista avente a disposizione un notevole potere politico e militare, il problema del controllo delle sue azioni diventa molto più grave.

In questo caso, effettivamente, le strade percorribili sembrano essere solo due: o la popolazione è sufficientemente matura e responsabile per impedire allo statista di commettere pazzie (ma allora dovremmo chiederci com’essa ha fatto a permettergli di arrivare al potere: se è stata ingannata, allora dovrebbe reagire immediatamente; se invece non ha la prontezza di farlo, perché normalmente, al momento delle elezioni o dell’attività politica in generale non mostra un particolare impegno o interesse, allora si può sperare ch’essa maturi la forza di reagire nel corso della gestione negativa del potere politico); oppure la popolazione è così immatura che reagirà solo dopo aver subìto su di sé tutte le conseguenze negative della gestione di tale potere (l’esempio del nazifascismo può essere illuminante).

È bene infatti rendersi conto che se il potere politico oggi è alienato dalla società civile, nel senso che il «politico» nell’ambito del capitalismo non riesce ad essere efficacemente controllato dal «sociale», ciò dipende anche dal fatto che la società civile fa poco o nulla per superare questa alienazione. Sotto tale aspetto, persino il peggior governo rispecchia sempre, seppur non completamente, l’immagine della società civile, almeno fino a quando i cittadini non comprenderanno che il loro potere politico non possono soltanto delegarlo, ma devono anche gestirlo in proprio, direttamente, soprattutto negli ambiti locali. Peraltro, quando la grande maggioranza della popolazione è coinvolta in tale «autogestione della politica», si evita più facilmente il rischio che quei gruppi o movimenti socialmente più impegnati facciano da supporto agli interessi del sistema.

Se la maggioranza della popolazione dimostrasse forte l’esigenza di autogovernarsi, apparirebbe subito evidente la pochezza morale e intellettuale di molti politici tradizionali, la loro fragilità interiore, la loro profonda povertà umana. «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono – dice il Cristo – meglio sarebbe per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato in mare» (v. 42). Questo perché un politico smascherato dall’umanità e dal senso di democrazia della gente, rischia di diventare un soggetto molto pericoloso, se continua a disporre di molto potere politico e militare. Ma può anche voler dire che un politico smascherato è un uomo perduto, poiché non essendo abituato all’autocritica non riuscirà a sopportare questa umiliazione.

Il potere politico oggi non conosce alcuna forma di umiltà non tanto perché è separato dalla morale, quanto perché è totalmente separato dalla società. Lo dimostra questo semplice esempio: un qualunque movimento molto impegnato sul terreno dei diritti umani, della pace o della tutela ambientale, quando si trasforma in un partito politico, entrando negli ingranaggi istituzionali e parlamentari, se non continua a svolgere, assiduamente, un’attività legata all’esperienza quotidiana delle masse popolari, inevitabilmente regredisce fino a perdere ogni caratteristica innovativa. È la stessa logica del sistema che gli impone questa involuzione. Non dipende dalla «malafede» o dalla «scarsa volontà», ma da regole oggettive che il sistema si dà per assorbire le varie forme di contestazione. Ecco perché bisogna sostenere il principio che la lotta rivoluzionaria contro il sistema va condotta anche e soprattutto a livello extraparlamentare, cioè sulle piazze, fra la gente, insieme a tutti i lavoratori e a tutti i cittadini.

Autore: laicusblog

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