Il Cristo ribelle di Reza Aslan

Reza Aslan, divenuto improvvisamente famoso perché primo esegeta islamico contemporaneo a scrivere un intero libro su Gesù Cristo1, è uno di quegli studiosi che può aiutarci a capire, seppur indirettamente, la differenza tra “mistificazione” e “falsificazione”.

Siccome è una differenza sottile, non sempre facilmente individuabile nei vangeli, cerchiamo di spiegarla analizzando alcune frasi dello stesso autore. Scrive a pag. 19: “i vangeli non sono e mai hanno voluto essere una documentazione storica della vita di Gesù. Non sono testimonianze dirette di ciò che Gesù disse e fece, riferite da coloro che lo conobbero personalmente. Sono testimonianze di fede composte da comunità di fede, scritte molti anni dopo gli eventi che descrivono. Detto semplicemente, i vangeli parlano di Gesù il Cristo, non dell’uomo Gesù”; “con la possibile eccezione del vangelo di Luca, nessuno dei vangeli è stato scritto dalla persona da cui ha preso il nome”.

Perché Aslan sostiene una tesi del genere? L’obiettivo è quello di dimostrare che tra il Cristo della fede e il Gesù storico vi è un abisso incolmabile, in quanto la punizione della croce veniva data dai Romani agli schiavi ribelli o ai rivoltosi politici (privi di cittadinanza) avversi al loro imperialismo. Il Cristo dei vangeli, invece, appare soltanto anti-giudaico, non anti-romano, e lo dimostra il fatto che, nell’ultimo suo ingresso a Gerusalemme, cercò – secondo la versione sinottica, non quella giovannea – di occupare il Tempio, non la fortezza Antonia, ove era di stanza la coorte romana in occasione delle grandi festività ebraiche.

Gli autori dei vangeli si comportano così perché appartenevano a una comunità che voleva convivere pacificamente con l’impero romano. E, purtroppo, stando le cose in questi termini e non avendo altre fonti cui attingere, la ricerca sul Gesù storico incontra dei limiti invalicabili, al punto che il rischio diventa quello di crearsi un’immagine di Cristo a proprio uso e consumo. In teoria basterebbe leggersi questa introduzione per capire tutto il contenuto del libro di Aslan.

Ora, cosa c’è che non va in questa impostazione ermeneutica? Fondamentalmente una cosa: se non è possibile distinguere il Gesù storico dal Cristo della fede, tutta la vicenda del “caso Gesù” finisce col perdere qualunque interesse per lo studioso che non professa alcuna fede. Se i vangeli sono frutto d’immaginazione religiosa, d’invenzione mistica e quindi di falsificazione dei fatti, lo studioso ha mille altri argomenti storici più interessanti che può esaminare.

L’esegesi critica è iniziata mettendo in discussione che il Cristo della fede fosse quello reale. H. S. Reimarus (1694-1768) è stato il primo ad arrivare a questa conclusione partendo proprio dai vangeli; quindi doveva per forza aver individuato degli indizi che l’avevano fatto sospettare dell’attendibilità di quella coincidenza.

Se si arriva ad affermare che non è possibile risalire al Gesù storico basandosi unicamente sui vangeli e, nonostante ciò, si vuole continuare a fare dell’esegesi, sarà impossibile evitare di fare delle ricostruzioni romanzate, oppure sarà impossibile non ricadere nella versione romanzata degli evangelisti.

Fino ad oggi le alternative “laiche” sono state due: o si esaminano i vangeli come se fossero esclusivamente le testimonianze di fede delle comunità cristiane che li hanno prodotti, dando per scontato che esse non ci dicono nulla di assodato sul Gesù storico; oppure è meglio evitare l’argomento, in quanto le fonti che ne parlano sono troppo inquinate, troppo tendenziose.

A partire dalla cosiddetta “Terza ricerca” esegetica (nata nel 1985) si è cominciato a studiare l’ebraicità del Cristo, cercando di capire se in quello che diceva o faceva vi erano motivi plausibili perché meritasse la condanna a morte da parte del Sinedrio o, quanto meno, da parte delle autorità religiose. È una ricerca (cui contribuiscono studiosi di origine ebraica) che non vede di buon occhio né il lato politicamente eversivo del Cristo, né la sua estraneità alle questioni o alle diatribe di tipo meramente religioso. Quindi, dal nostro punto di vista, è una ricerca che lascia il tempo che trova, in quanto costituisce un passo indietro rispetto sia alla Prima e alla Seconda ricerca.

Ma torniamo alle affermazioni di Aslan riportate sopra. Se un esegeta non capisce la differenza tra falsificazione e mistificazione, e vuole comunque scrivere un testo su Gesù Cristo, inevitabilmente sarà costretto a far proprie le tesi fondamentali (almeno alcune) degli stessi vangeli. Potrà eliminare quelle più mistiche, inconcepibili per la nostra mentalità razionalistica, ma alla fine sarà ugualmente caduto nella trappola dei redattori.

Prendiamo questa sua affermazione: escluso forse quello di Luca, i vangeli sono stati scritti da autori anonimi, lontani dagli eventi che raccontano. Uno storico quale conclusione potrebbe trarre da questa tesi? Che sono testi falsi per definizione, in quanto non si sa nulla neppure su chi li ha scritti. Sbagliato! Dietro Marco, che ha inventato il genere letterario del “vangelo”, c’è l’ideologia petrina, riveduta e corretta da quella paolina. Matteo e Luca copiano da lui e riscrivono i testi sulla base delle loro esigenze, più giudaiche per l’uno, più ellenistiche per l’altro. Luca è chiaramente un discepolo di Paolo, per cui il suo vangelo è come se fosse stato scritto dallo stesso Paolo. La cosiddetta “fonte Q”, cui attingono Matteo e Luca, non aggiunge nulla di significativo a quanto già scritto da Marco. Quanto al quarto vangelo, quello originario, scritto in aramaico e andato perduto, c’è arrivato in una versione greca profondamente revisionata, in quanto l’opposizione al vangelo marciano si è cercato di ridurla al minimo.

Quindi a monte dei quattro vangeli vi sono almeno tre fondamentali ideologie che si fronteggiano: quella petrina, quella paolina e quella giovannea. Un’altra ideologia è rinvenibile nel vangelo matteano, ed è quella dei giudeo-cristiani, che, dopo la morte di Gesù, era rappresentata da Giacomo il Giusto e che scomparirà dopo la catastrofe del 70.

Da ultimo si può affermare che nel quarto vangelo sono confluite tradizioni provenienti dall’essenismo, dallo gnosticismo e dall’ellenismo di Filone Alessandrino (sono note le affinità con alcuni testi dei manoscritti di Qûmran e dei papiri egiziani di Nag Hammâdi).

Di tutte queste tradizioni la prevalente è una sola: quella paolina. Paolo di Tarso è vissuto al tempo di Gesù; era un fariseo fanatico; poi, siccome credeva nell’idea di resurrezione, si convertì alla tesi petrina, con cui veniva interpretata la tomba vuota del Cristo; credette anche lui, per un certo tempo, a una parusia imminente e trionfale di Gesù; infine, quando vide ch’essa non si verificava, decise di posticiparla al momento del giudizio universale. Di rilievo in lui il fatto che, di fronte al netto rifiuto ebraico di credere a questa idea farisaico-cristiana, decise di rivolgersi esclusivamente ai pagani, e fu così che nacque il cristianesimo pagano.

Se tale ricostruzione dei fatti che hanno originato i vangeli è esatta, è evidente che il compito dell’esegeta diventa uno solo: come smontare tutta la teologia paolina per ritrovare l’autentico Gesù Nazireo.2 È stato in grado Reza Aslan di fare una cosa del genere nel suo libro? Purtroppo no, e proprio perché non è riuscito a capire la differenza tra “falsificazione” e “mistificazione”.

Di tutta la teologia paolina, qual è l’argomento principale? La resurrezione di Gesù Cristo. Paolo aveva già in mente l’idea di resurrezione, ma la riferiva a un tempo remoto, quando, alla fine della storia, Jahvè avrebbe risorto i giusti, gli uomini e le donne di fede, , gli eletti. Non poteva accettare l’idea di Pietro secondo cui Gesù aveva anticipato i tempi e che, per questo motivo, andava considerato il messia tanto atteso. Gli appariva una posizione disfattista contro i Romani, a meno che ovviamente non fosse ritornato da vincitore, ma in tal caso anche molte autorità giudaiche avrebbero dovuto rinunciare al loro potere.

Peraltro, in tutto e per tutto Gesù appariva come uomo: per quale motivo bisognava credere che fosse risorto? Paolo diede una risposta a questa domanda che Pietro non aveva previsto: se Gesù è davvero risorto, allora non può essere considerato un uomo come gli altri, se non all’apparenza; nella sostanza è “figlio di Dio”, in via del tutto esclusiva, nel senso che nessun altro può esserlo come lui. Quindi, se ha ragione Pietro, questo essere divino-umano deve per forza tornare, dimostrando d’essere superiore a tutti, anche ai Romani; e se non lo fa subito, lo farà comunque quando lo riterrà opportuno. Poi sul momento della parusia sono state fatte varie ipotesi: lo deciderà Dio-padre, poiché neppure il Figlio sa il momento preciso; avverrà quando gli ebrei si convertiranno; o quando accadrà “l’abominio della desolazione”, preannunciato da catastrofi di varia natura.

Il legame tra Pietro e Paolo appare evidente. Ora, dove sta la “falsificazione”? E dove la “mistificazione”? Per comprendere la prima, bisogna partire dalla seconda. La mistificazione presuppone un fatto reale interpretato male. Il fatto reale era la tomba vuota; l’interpretazione sbagliata è quella della resurrezione del corpo. Non si può parlare di “resurrezione” se il corpo morto non viene rivisto vivo, ma questo non poteva accadere, poiché la libertà umana di coscienza sarebbe stata violata, cioè indotta a credere per forza in un evento (tant’è che il vangelo originario di Marco non contempla alcun racconto di riapparizione di Gesù). Nell’idea di resurrezione bisogna credere per fede, a prescindere persino della tomba vuota: infatti, in quel vangelo le donne che la vedono vuota, fuggono impaurite.

Questa è dunque la mistificazione originaria. Invece di parlare di “strana scomparsa del cadavere”, Pietro volle dare una spiegazione mistica dell’evento. La falsificazione viene dopo, ed è appunto quella di Paolo. Se Gesù Cristo è risorto, allora non era un semplice uomo: era una persona divino-umana, era l’unigenito figlio di Dio. Questa è una falsificazione al cento per cento, poiché dall’idea di “resurrezione” non si può ricavare assolutamente l’idea di “esclusiva figliolanza divina” del Cristo. Cioè nulla lascia pensare che un’entità a lui esterna abbia potuto determinare la resurrezione del suo corpo.

Neppure la Sindone è in grado di “dimostrare” alcunché, anche dando per scontato che quel lenzuolo abbia realmente avvolto il corpo di Gesù e che la sua proiezione su di esso sia avvenuta in una maniera poco comprensibile.

A parte tutto ciò, resta da dimostrare che la storiografia moderna abbia delle caratteristiche scientifiche che quella evangelica di duemila anni fa non poteva avere. In una civiltà antagonistica come la nostra si è semplicemente passati da categorie esplicitamente mistiche, come appunto “resurrezione”, “figliolanza divina”, “regno dei cieli”, “sacramenti”, ecc., a categorie indirettamente mistiche come “libertà di mercato”, “libertà del mercato di lavoro”, “esigenze del profitto”, “primato del valore di scambio”, e così via. Detto banalmente: si è passati dal dio uno e trino al dio quattrino, e la storiografia si è piegata alle esigenze di entrambi.

Note

1 Gesù il ribelle, ed. Rizzoli, Milano 2013 (tit. or. Zealot: The Life and Times of Jesus of Nazareth).

2 “Nazireo”, non “Nazareno”, in quanto il titolo fatto affiggere da Pilato sulla croce non faceva riferimento a un’indicazione geografica, ma a una qualifica politica.