Lazzaro di Betania (Gv 11,1-44)

[1] Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella.

[2] Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.

[3] Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato».

[4] All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la glo­ria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato».

[5] Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.

[6] Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.

[7] Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».

[8] I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».

[9] Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo;

[10] ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce».

[11] Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo».

[12] Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà».

[13] Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno.

[14] Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto

[15] e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, an­diamo da lui!».

[16] Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».

[17] Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro.

[18] Betania distava da Gerusalemme meno di due miglia

[19] e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.

[20] Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa.

[21] Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!

[22] Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà».

[23] Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà».

[24] Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno».

[25] Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muo­re, vivrà;

[26] chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».

[27] Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».

[28] Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, di­cendo: «Il Maestro è qui e ti chiama».

[29] Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui.

[30] Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro.

[31] Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria al­zarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là».

[32] Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicen­do: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!».

[33] Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse:

[34] «Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!».

[35] Gesù scoppiò in pianto.

[36] Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!».

[37] Ma alcuni di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?».

[38] Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.

[39] Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Si­gnore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni».

[40] Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?».

[41] Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.

[42] Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attor­no, perché credano che tu mi hai mandato».

[43] E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!».

[44] Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un su­dario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».

*

Perché questo racconto, in cui si narra un episodio assolutamente eccezionale, non trova alcun riscontro nei Sinottici? Generalmente l’esegesi confessionale più superficiale sostiene che nei Sinottici il parallelo va cer­cato nel racconto della figlia di Giairo (Mc 5,21 ss.) o in quello del figlio della vedova di Nain (quest’ultimo riportato solo da Lc 7,11 ss.).

Questi paralleli tuttavia hanno poco senso: sia perché in quello di Giairo Gesù non appare come un vero e proprio resuscitatore di morti, in quanto la fanciulla non era ancora stata giudicata assolutamente morta dai parenti; sia perché nell’altro racconto si rimanda, anche abbastanza scoper­tamente, a un’analoga guarigione compiuta da Elia in 1Re 17,23, per cui è difficile ritenerlo attendibile. Tra l’altro nel racconto di Lazzaro, che è cro­nologicamente posteriore agli altri due, non si ha nessuna consapevolezza che il Cristo potesse anche resuscitare i morti.

Altri esegeti ritengono che il miracolo di Lazzaro non venga ripor­tato nei Sinottici perché il suo parallelo è, secondo l’impostazione redazio­nale dei tre evangelisti, la guarigione di Bartimeo (Mc 10,46 ss.): questi in­fatti rappresenta l’ideale del discepolo che vince i suoi dubbi circa il lato umano della messianicità del Cristo e decide di seguirlo fino a Gerusalem­me per l’ingresso trionfale. Il che sarebbe più significativo, sul piano etico-politico, che credere in un messia resuscitatore di morti.

Senonché l’episodio di Lazzaro va ben al di là del semplice evento prodigioso, in quanto anch’esso – come quello di Bartimeo – coinvolge aspetti che riguardano, insieme, la sfera politica e quella dei sentimenti umani. Questa pericope, se vogliamo, avrebbe dovuto intitolarsi non «resur­rezione di Lazzaro» ma «manifestazione dell’umanità del messia».

Un minimo più credibile è l’ipotesi avanzata da qualche esegeta secondo cui la resurrezione di Lazzaro sarebbe stata in origine una semplice guarigione, forse avvenuta in un momento diverso da quello descritto dal quarto vange­lo, il cui significato è stato gonfiato da redattori prevalentemente di origine giudaica. La pericope peraltro è stata collocata nell’imminenza dell’ultima Pasqua, anche per rispondere al racconto, di matrice politica, non meno fan­tasioso, dei pani miracolati, che redattori cristiani di origine galilaica aveva­no elaborato nei Sinottici, in riferimento alla Pasqua precedente. Questo per dimostrare che Gesù aveva dato il meglio di sé non solo in Galilea ma an­che in Giudea.

Si può in un certo senso dire che il racconto della presunta resurrezione di Lazzaro ha un’importanza pari a quello della presunta moltiplicazione dei pani. Con questa differenza: in Galilea Gesù, con solo appoggio dei galilei, senza quello dei giudei, aveva fatto capire di non essere intenzione a compiere alcuna liberazione nazionale, e il redattore, di origine galilaica, ha mistificato la cosa usando l’arma del miracolo di due sostanze materiali: i pani e i pesci; in Giudea invece decide di compierla, proprio perché sa di poter avere l’appoggio di tutti i giudei, galilei e samaritani intenzionati a liberarsi dello straniero oppressore, e qui il redattore, di origine giudaica, ha subìto una manipolazione da parte di un altro redattore giudaico-cristiano, che ha mistificato il racconto usando l’arma del miracolo più grande che si possa compiere: resuscitare un morto. Quindi se la fonte o la tradizione più originaria della peri­cope va ricercata nella Giudea, come per gran parte dei racconti giovannei, il testo è stato sicuramente manipolato a più riprese da altri redattori cri­stiani influenzati dalle culture giudaico-mistiche e gnostico-ellenistiche, allo scopo di censurare il lato politico della predicazione messianica del Cristo.

Ora, prima di analizzare il racconto, che sicuramente è di una straordinaria complessità, è bene fare una precisazione di metodo. Nel van­gelo di Giovanni nessun racconto ha uno spessore così solido, dal punto di vista umanistico, come questo. E tuttavia questo è uno di quei racconti che meno di altri può essere accettato così come è descritto. Il fatto stesso che un racconto di questo genere (in cui il Cristo appare come un «dio») non abbia trovato alcun riscontro nei Sinottici può essere indicativo della sua scarsa attendibilità, almeno per come esso ci è giunto.

Va di sicuro escluso che un evento del genere sia stato scritto in un momento in cui qualche testimone oculare avrebbe potuto smentirlo. Quin­di o l’evento è veramente accaduto, con pochissimi testimoni a riguardo (di tutti gli apostoli il solo Giovanni, di tutti i parenti la sola Maria), oppure è molto tardivo (o comunque sono tardivi i passi più miracolistici aggiunti a un nucleo originario che forse prevedeva un’azione meramente terapica o, addirittura, una semplice presa d’atto del decesso di un compagno di lotta politica). Una base storica deve comunque esserci, non foss’altro che per una ragione: gli apostoli che, con Gesù, si erano nascosti in Transgiordania per timore d’essere catturati, poterono osservare di persona questo evento. Tra essi vi era sicuramente Pietro, anche se vengono citati col termine generico di «discepoli» (il solo di cui si riporta il nome è Tommaso), e Pietro è la fonte principale del vangelo di Marco: pertanto, visto che se ne parla soltanto qui, o questo episodio è stato completamente inventato, oppure non è accaduto esattamente come è stato raccontato.

L’attendibilità di questo racconto non può ovviamente essere data dalle motivazioni dell’esegesi confessionale, secondo cui le parole e le opere del Cristo sono tanto più vere quanto più rispecchiano le tradizioni acquisite dal cristianesimo primitivo: si è addirittura arrivati a dire che proprio il fatto che l’autore di questo racconto voglia rimandare esplicitamente alla morte e resurrezione del Cristo depone a favore della storicità del racconto!

In realtà se c’è una cosa che nega ai vangeli una qualunque attendi­bilità è proprio questa forte convergenza tra quanto viene attribuito al Cri­sto e quanto era d’uso comune presso i cristiani influenzati dall’ideologia paolina, quella che nel dibattito tra le varie correnti proto-cristiane risultò vincente. Sotto questo aspetto, se accettiamo l’ipotesi che i vangeli altro non siano che una ricostruzione letteraria della comunità primitiva in rapporto alla fede post-pasquale, ovvero se la preoccupazione della comunità primi­tiva, dal punto di vista redazionale, è stata quella di dimostrare, in questo e altri racconti miracolistici, che il Cristo era davvero il «Figlio di Dio», di­venta difficile immaginare che possa esistere qualcosa che ci impedisca dal ritenere come puramente inventati tutti i racconti in cui avvengono cose straordinarie o umanamente impossibili. Se vogliamo, proprio la pretesa di vedere in Gesù un dio toglie storicità anche a quegli eventi che forse po­trebbero essere considerati umanamente accettabili (sempre che nell’agget­tivo «umano» si consideri tutto ciò che sarebbe possibile se l’uomo fosse davvero se stesso).

Dal canto suo, l’esegesi non strettamente confessionale pretende di trovare nei vangeli, in virtù di un lavoro di epurazione dei testi da tutto ciò che può apparire artificioso, apologetico ecc., quei versetti che da soli auto­rizzano una ricostruzione sufficientemente realistica degli eventi. Ma anche questa posizione pecca di semplicismo. Spesso l’operazione di falsificazio­ne redazionale da parte degli evangelisti non si limita ad aggiungere frasi o azioni che nella realtà non sono mai state dette o fatte, ma omette parole o frasi che potrebbero apparire imbarazzanti per un’ideologia spiritualistica come quella cristiana, e soprattutto trasforma parole e azioni storicamente attendibili in cose del tutto inventate, conservandone elementi sufficienti a credere che siano veramente accadute.

In generale si può affermare questo: quanto più forti sono gli artifi­ci letterari dei redattori, specie quelli del quarto vangelo (p. es. l’ambiguità intenzionale nell’uso di determinate parole o espressioni, che porta inevita­bilmente a malintesi e incomprensioni tra Gesù e gli interlocutori, onde ac­centuare la distanza che li separa), tanto meno credibili appaiono i racconti sul piano storico.

Generalmente i manipolatori del quarto vangelo non intervengono inventandosi cose mai accadute, ma preferiscono modificare quelle già esistenti, e lo fanno in due maniere, aventi una medesima finalità: quella di sostituire gli aspetti politici del progetto di liberazione del Cristo con aspetti religiosi inerenti a un progetto di redenzione morale. Un modo è quello di cambiare particolari concreti molto importanti con altri del tutto fittizi, l’altro è di commentare i particolari reali in maniera distorta. In questo lungo racconto, che ha un ruolo centrale nel quarto vangelo, hanno fatto entrambe le cose.

Ovviamente l’esegesi confessionale non potrebbe ammettere una tesi del genere, ma, se per questo, essa fatica alquanto a trovare una risposta convincente anche alla seguente domanda: se il Cristo non fosse scomparso dalla tomba e avesse fatto in vita le guarigioni descritte nei vangeli (ivi in­cluse quelle più improbabili), sarebbe stata elaborata ugualmente una «teo­logia della salvezza» o ci si sarebbe limitati a una semplice «filosofia di vita», al pari di quelle elaborate da e per tanti altri santoni e sciamani del mondo orientale?

A favore dei vangeli noi possiamo dire che pur avendo i romani crocifisso migliaia di schiavi ribelli, di nessuno di questi abbiamo una lette­ratura così cospicua, sia essa totalmente o parzialmente inventata, come quella sul «ribelle Gesù». Ciò significa che qualcosa di realistico deve es­serci nei vangeli, altrimenti dovremmo ammettere, per assurdo, che sin dal­l’origine una mente diabolica è riuscita a imbastire la più grande truffa lette­raria della storia. E, se così fosse, dovremmo chiederci il motivo per cui sino ad oggi nessuno l’abbia ancora scoperta con prove alla mano.

In realtà tutti sanno che le truffe in generale e quelle letterarie in particolare appaiono credibili solo quando sono basate su fatti probabili. È poi compito dell’esegeta cercare di scoprire quando si può parlare di verosi­miglianza e quando di mera invenzione. Indubbiamente, sotto questo aspet­to, il racconto della cosiddetta «resurrezione di Lazzaro» è uno di quelli che più mette a dura prova le capacità di discernimento del lettore.

D’altra parte un’esegesi che si limitasse a commentare l’interpreta­zione cristiana post-pasquale degli eventi pre-pasquali non servirebbe a nul­la, perché sarebbe inevitabilmente apologetica. La premessa da cui partire è quella di mettere in discussione che l’interpretazione cristiana degli eventi post-pasquali sia l’unica possibile e soprattutto l’unica vera.

*

Quando Lazzaro s’ammalò (forse perché ferito in uno scontro mili­tare) al punto da impensierire seriamente le due sorelle Marta e Maria, que­ste poterono mandare un’ambasciata ad avvisare Gesù solo perché sapevano ch’egli non era molto lontano da Betania (forse un giorno di cammino). Gesù e i suoi discepoli, in effetti, soggiornavano in Perea, nei pressi del Giordano, dove il Battista era stato arrestato qualche anno prima e dove an­che loro tentavano di sottrarsi all’ennesimo mandato di cattura (Gv 10,40). I tre protagonisti di Betania erano sicuramente al corrente delle peregrinazio­ni dei leader nazareni.

Intorno a Lazzaro i vangeli non offrono alcuna testimonianza: in nessun luogo egli pronuncia una benché minima espressione. Questo silen­zio pare sospetto, tanto più che qui il redattore usa il termine di «philos» (v. 11), come se volesse indicare che Lazzaro non era solo un amico personale del Cristo, ma addirittura un seguace del movimento nazareno o comunque un compagno di lotta (vv. 3, 5 e 11).

Lo stesso dicasi di Marta e Maria, le due vere protagoniste di que­sto racconto, che qui vengono introdotte come se il lettore già le conoscesse o, se vogliamo, come se tra loro e il Cristo vi fossero stati dei precedenti molto significativi. In realtà anche di loro non sappiamo quasi nulla. Dei Si­nottici il solo a fare un piccolo riferimento è Lc 10,38-42.

Si ha l’impressione che il redattore, citando per prima Maria e ri­cordando che fu lei a profumare i piedi del Cristo, in seguito a questo episo­dio, consideri quest’ultima più importante di Marta, dando così conferma del famoso passo di Luca che descrive una Maria contemplativa, disposta ad ascoltare il «verbo» e una Marta troppo presa dalle faccende domestiche per poter essere una vera discepola del Cristo. In effetti, e lo vedremo me­glio in seguito, Marta sembra qui rappresentare, in maniera simbolica, l’in­comprensione del lato umano del messia.

In ogni caso un intervento redazionale a più mani è ben visibile sin dagli esordi di questa lunga pericope. E le contraddizioni che nascono in se­guito a queste manipolazioni sono subito stridenti. Appena sentito ch’era malato – dice il v. 6 – Gesù «si fermò ancora due giorni nel luogo dov’era». Se questo è vero, lo stesso redattore deve averne frainteso il motivo, perché al v. 4 tenta di spiegarlo in una maniera del tutto fantasiosa: Gesù si era fer­mato apposta perché non aveva intenzione di compiere una semplice guari­gione ma addirittura una resurrezione!

Avendo in mente un Cristo impolitico, che fa della politica il regno dei corrotti, il redattore tende ad attribuirgli dei pensieri e delle azioni del tutto innaturali per una persona comune (in questo caso politicamente impe­gnata), e che però vogliono essere consoni alla rappresentazione immagina­ria di una persona dalle caratteristiche divino-umane.

Questo redattore, di cultura ellenistica, è talmente estraneo alla po­litica che piuttosto che pensare – come ha fatto un altro redattore di questa pericope, questa volta di cultura ebraica – che il Cristo (sempre secondo un’interpretazione fantasiosa) avrebbe potuto utilizzare la tragedia della morte di un amico come occasione per compiere qualcosa di convincente anche per i giudei più scettici circa la verità politica del proprio messianismo, ha preferito credere che la resurrezione abbia qui avuto, come unico scopo, quello di dimostrare che il Cristo era «Figlio di Dio».

Tale considerazione ci induce ad aprire una piccola parentesi per dire che la stretta identità di «Dio» e «Figlio di Dio» (si veda il v. 4), fa par­te in un certo senso dell’ateismo ingenuo del cristianesimo primitivo, il qua­le, invece di limitarsi a vedere Gesù come uomo, sospendendo il giudizio su quegli aspetti che potevano apparire di natura controversa, ha deciso di pa­ragonarlo, stricto sensu, a un dio, facendo coincidere l’espressione «gloria di Dio» (che per un ebreo aveva significato esclusivo: solo Jahvè è Dio) con l’espressione «glorificazione del figlio di Dio» (che per un ebreo equi­valeva a bestemmiare). Queste sono aggiunte posticce al racconto origina­rio (ivi inclusa quella dell’appellativo «Signore»), poiché noi sappiamo da Giovanni che Gesù non si è mai considerato «Figlio di Dio», né «Dio» in persona, e neppure suo rappresentante religioso. Il Cristo di Giovanni vole­va gli uomini indipendenti da qualunque giudizio o volontà divina. Il suo era un ateismo umanistico, estraneo a influenze di tipo religioso.

Dunque, stando al v. 6 si ha l’impressione che il Cristo si fosse fer­mato «ancora due giorni nel luogo dov’era» proprio perché voleva che Laz­zaro morisse e poterlo così risorgere. Invece di affrettarsi ha preferito tarda­re e per poter convincere gli apostoli che aveva intenzione di compiere qualcosa di speciale, è stato costretto ad affermare, al v. 14, che Lazzaro era già morto, mostrando di saperne più lui, circa la malattia mortale di Lazza­ro, dei messi inviati da Marta e Maria.

Qui il redattore è intervenuto pesantemente. In realtà l’attesa di Gesù fu dovuta a un’esitazione giustificata, come si evince molto bene dai vv. 8 e 16, dove i discepoli (in particolare Tommaso) temono che il messia venga arrestato e loro con lui. Essi devono aver pensato che la sua iniziati­va, in caso di insuccesso, avrebbe potuto risultare molto più costosa dei be­nefici che avrebbe potuto ottenere in caso contrario. In altre parole: se Laz­zaro era davvero gravemente malato non sarebbe valsa la pena rischiare l’arresto; se invece non lo era, non sarebbe valsa la pena lo stesso, perché prima o poi sarebbe guarito. Questo il senso del v. 12.

Una cosa però è che siano loro (semplici esseri umani) ad avere questi timori e a fare questi ragionamenti, un’altra – deve aver pensato il re­dattore – è che sia lui (il «Figlio di Dio») a comportarsi così.

Ecco dunque qual è stata – secondo il redattore – la risposta del Cristo alle obiezioni dei discepoli: «Se uno cammina di giorno non inciam­pa» (v. 9). Il che, nel linguaggio apologetico, sta a significare: «il Cristo morirà solo quando sarà la sua ora». Parabola, questa, che rimanda esplici­tamente a quella di Gv 9,4 s.

Viceversa, quale può essere stata la risposta qui omessa e che si può facilmente intuire dal contesto? «Lazzaro è uno dei nostri, dobbiamo ri­schiare, però non c’è bisogno che rischiamo tutti. Se non rischiassimo, qual­cuno potrebbe pensare che abbiamo anteposto interessi politici a quelli umani».

Al v. 14 il redattore è esplicito nella sua falsificazione: il Cristo aveva tardato a intervenire proprio perché sperava che i discepoli, vedendo Lazzaro risorgere, credessero definitivamente nella sua «figliolanza divina». Tesi, questa, che ne comporta molte altre: quella della «morte ne­cessaria», del «regno in un altro mondo» ecc. La falsificazione viene ripetu­ta ai vv. 25-26 e al v. 42, allorché si sostituiscono i discepoli, come target di riferimento dell’efficacia del prodigio, prima con Marta, poi con i giudei imparentati con le sorelle di Lazzaro.

Il redattore ha praticamente voluto dimostrare che la resurrezione di Lazzaro seppe venire incontro a esigenze di tipo personale (espresse dal­le due sorelle Marta e Maria) e di tipo pubblico (espresse dai giudei lì pre­senti – cfr il v. 37).

Alcuni esegeti confessionali hanno sostenuto – condividendo la tesi di uno dei redattori – che questo miracolo doveva servire per la causa nazio­nale, cioè per dare la possibilità di credere nella messianicità del Cristo an­che ai giudei più scettici. Quindi, pur senza mettere in gioco la volontà di dimostrare la propria divinità, da parte del Cristo, tali esegeti sono convinti che il prodigio abbia avuto lo scopo di evidenziare che esistevano tutte le condizioni per credere nelle capacità rivoluzionarie del movimento nazare­no.

Questo modo di ragionare, pur essendo più vicino alle tesi dell’u­manesimo integrale, resta comunque apologetico, poiché non scalfisce di una virgola il principio secondo cui non vi è nulla che possa obbligare qual­cuno a credere in qualcosa. Sotto questo aspetto qualunque guarigione o prodigio o miracolo compiuto da Gesù nei vangeli non è in grado di dimo­strare alcunché, né sul piano etico né su quello religioso.

Il dialogo fittizio tra Marta e Gesù sembra, in tal senso, che rappre­senti la forbice entro cui può muoversi l’interpretazione cristiana di questo episodio, sia essa condizionata dalla cultura ebraica o ellenistica. Nel senso che, comunque la si metta, in ultima istanza lo scopo del racconto è quello di indurre il lettore a credere nella divinità del Cristo. L’oscillazione inter­pretativa non va al di là di questi limiti. E la cosa è talmente evidente che le parole di Marta ricalcano quasi alla lettera antiche confessioni cristiane di fede.

In sostanza l’unica vera prova che il redattore ha potuto usare circa la morte di Lazzaro è costituita dal riferimento temporale dei quattro giorni. Considerando che i messi avranno impiegato un giorno per arrivare al na­scondiglio di Gesù, se ad esso si aggiungono i due giorni che questi ha la­sciato passare e l’altro giorno per arrivare a Betania, i conti in effetti torna­no, sempre che ovviamente si dia per scontato che Lazzaro sia deceduto ap­pena i messi erano partiti. Essi avevano raggiunto Gesù convinti che Lazza­ro fosse ancora vivo e Gesù si era mosso (e con lui alcuni discepoli, tra i quali sicuramente Giovanni) nella convinzione di poterlo sanare, come ave­va già fatto per altri casi.

Qui va sottolineato che per gli ebrei una persona veniva considera­ta veramente morta solo allo scadere del quarto giorno, anche se a motivo del clima molto caldo i morti venivano messi nelle tombe sin dal primo giorno. Il periodo di lutto era di sette giorni. Il redattore ci dice che quando Gesù arrivò a Betania molti parenti erano già giunti da Gerusalemme, distante poche miglia, per consolare le sorelle di Lazzaro.

Delle due la prima che viene informata dell’arrivo di Gesù è Marta, che non si preoccupa di avvisare anche Maria (rimasta in casa) e che evi­dentemente è a conoscenza del carattere di riservatezza della visita di Gesù, il quale, come un clandestino ricercato dalla legge, è rimasto nei pressi del villaggio a chiedersi come avrebbe potuto guarire l’amico malato senza far­si notare. O forse qualcuno l’ha già informato che Lazzaro era morto.

Quel che Marta può aver detto a Gesù è già molto se riusciamo a intuirlo tra le righe pesantemente manipolate dai redattori. La prima cosa ovviamente deve essere stata quella relativa al decesso, avvenuto quattro giorni prima. La seconda cosa non rappresenta solo una forma di convinzio­ne personale, come apparentemente può sembrare: «Se tu fossi stato qui, lui non sarebbe morto» (v. 21), ma anche una forma di giudizio critico: «Il fat­to che tu non ci fossi posso capirlo sul piano politico, ma faccio fatica ad accettarlo sul piano umano».

In altre parole, sembra che per Marta questa mancata guarigione non pregiudichi il compito rivoluzionario che il messia Gesù deve realizza­re, tuttavia essa avrebbe preferito che, in nome dell’amicizia per Lazzaro, Gesù avesse agito diversamente. Marta in sostanza qui si comporta come Bartimeo, prima che questi dica «Rabbunì».

Giovanni comunque contraddice apertamente l’opinione di Lc 10,38 s. che vede in Marta una donna insensibile alla predicazione del Cri­sto, anche se – e lo vedremo – conferma che sul piano umano Maria le era superiore. Si può forse dire che per Marta l’umanità del Cristo era stretta­mente correlata alla sua messianicità.

Tutte le risposte che le dà Gesù, riportate nella pericope, vanno considerate fantasiose, per cui si può pensare che l’unica cosa credibile che le abbia detto sia stata quella di andare a chiamare Maria (v. 28). Una don­na politicamente impegnata come Marta facilmente avrebbe potuto capire che quando sono in gioco i destini di un’intera nazione, i drammi o le trage­die personali vanno considerati come incidenti di percorso, nei cui confron­ti non si può rivendicare un interessamento particolare da parte dei dirigenti politici. L’invito del messia sarà dunque stato quello di rassegnarsi oppure di sperare che i seguaci di Lazzaro si convincessero ad accettare il progetto insurrezionale dei nazareni, invece di agire per conto proprio.

L’esegesi confessionale sostiene che Gesù ha accettato di risorgere Lazzaro per dimostrare a Marta la propria profonda umanità, che poi coin­cide – per detta esegesi – con la sua divinità, ma se così fosse si dovrebbe considerare del tutto inverosimile che alla fine della sua vita Gesù fosse an­cora circondato da discepoli incredibilmente ostinati a non credere nella sua umanità e continuamente ansiosi di vedere prodigi sempre più spettacolari per arrivare, in sostanza, a non credere mai nel suo vangelo. Non meno stu­pefacente è che il Cristo si presti qui ad accettare, poco prima di compiere la rivoluzione armata, queste vergognose forme di ricatto morale.

I redattori dei vangeli vogliono far sembrare paradossale a un let­tore ingenuo che anche di fronte a fatti così straordinari, come appunto la resurrezione di un morto, l’opinione su Gesù restava incerta, ambivalente, e che solo una parte dei testimoni, in definitiva, sceglieva di credere in lui. In realtà nulla a questo mondo può convincere della verità di una determinata posizione, se manca un coinvolgimento di tipo personale, in cui la libertà svolga un ruolo decisivo, e qualunque rappresentazione della personalità o del comportamento del Cristo che si avvalga di elementi di tipo sovrumano, utilizzati per indurre a credere in lui, rende inevitabilmente ridicoli o ripro­vevoli tutti i personaggi che lo circondano, a seconda che aderiscano o meno al suo vangelo.

Se infatti considerassimo vere le parole dette da Gesù a Marta che idea dovremmo farci di quest’ultima? Il dialogo tra i due è di un’assurdità fuori del comune. Al v. 22 il redattore si è divertito a equivocare sul signifi­cato dell’oggetto del desiderio di Gesù e sul momento in cui ottenerlo: in­fatti non si capisce se Marta sia convinta che a Gesù basti chiedere a Dio di far risorgere Lazzaro, oppure che, nonostante la morte di Lazzaro, Gesù ha comunque il potere di chiedere qualunque cosa a Dio per la realizzazione della sua missione.

Gesù, a sua volta, continua a equivocare assicurando a Marta che Lazzaro sarebbe risorto, ma senza precisarle il momento. Al che lei, pen­sando di aver ottenuto una magra consolazione, risponde di sapere già il momento, quello dell’ultimo giorno, quando verranno risorti tutti i morti della terra (da notare che per gli ebrei l’idea di resurrezione è sempre stata piuttosto peregrina).

Ora però il redattore fa parlare Gesù chiaro e tondo: «Io sono la re­surrezione e la vita» (v. 25). Frase, questa che, portata all’estremo, potrebbe anche voler dire che Dio non c’entra nulla circa la possibilità che Gesù ave­va di far risorgere Lazzaro.

Marta cade dalle nuvole e risponde, serafica, come per asseconda­re uno che ha le traveggole: «Sì, credo che tu sia il messia, il figlio di Dio» (v. 27), che in altre parole starebbe per: «Se ti sei offeso che ho messo in dubbio la tua messianicità e divinità, me ne pento e riconfermo entrambe esplicitamente».

Cristo prende atto di questa confessione di fede politico-religiosa ma non risorge Lazzaro: la coscienza di Marta non è abbastanza profonda. Ecco perché le chiede di far venire la sorella Maria.

Marta, in sostanza, nella mente fantasiosa dei redattori cristiani, non ha ottenuto la resurrezione di Lazzaro perché aveva messo in dubbio le capacità di trasformare la materia da parte di una persona divino-umana.

È da ritenersi comunque realistico il fatto che solo quando vede Maria Gesù non si sente giudicato. Da notare che sino a quel momento po­chissime persone si erano accorte della sua presenza. Marta aveva avvisato Maria «sottovoce» – dice Gv 11,28 – appunto per proteggere la riservatezza dell’incontro con Gesù; i parenti la seguivano da lontano pensando che si recasse al sepolcro.

Quando vede Gesù, Maria gli si getta ai piedi e piange amaramen­te: le parole che dice sono le stesse di Marta ma l’atteggiamento è diverso (v. 32), tant’è che la commozione diventa generale: dei parenti e dello stes­so Gesù, ad eccezione di alcuni che malignano dicendo: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?» (v. 37).

La differenza tra Marta e questi parenti sul piano politico è netta: Marta non mette in dubbio che il Cristo debba comunque diventare il mes­sia d’Israele, nel senso che i difetti ch’egli può avere sul piano umano non possono incidere – secondo lei – sulla giustezza del suo messaggio politico e sulla necessità ch’egli abbia di governare il paese. Per alcuni parenti invece il dubbio permane e non a caso viene detto che questi informarono i farisei dell’accaduto (v. 46), mettendo a repentaglio l’incolumità del messia.

L’atteggiamento di Maria ha invece convinto Gesù che, nonostante il suo indugio ad assistere prontamente Lazzaro per timore d’essere arresta­to, egli veniva accettato pienamente anche come uomo e non solo come po­litico. Per lei la morte di Lazzaro rientra semplicemente nel dramma della vita e anche se Gesù, quale compagno di lotta, avrebbe potuto evitarla, il non averlo fatto non mina la fiducia che occorre riporgli come uomo e come messia.

La pericope avrebbe potuto chiudersi col v. 37 che nulla si sarebbe tolto al valore spirituale dell’episodio. I redattori invece hanno preferito so­stituire un messia politicamente sconfitto con una divinità trionfante: di qui l’esigenza di fargli compiere il prodigio. Se si fossero fermati alla normale prosaicità dei fatti, essi avrebbero dovuto mettere in risalto la grandezza in­teriore dell’uomo Gesù, uscito politicamente sconfitto dallo scontro con le forze governative (anche se nella fattispecie del racconto ancora non era detto). Questo però appariva storicamente inaccettabile. Ecco perché sono stati inseriti degli elementi magico-religiosi. La grandezza del Cristo non stava nell’aver dimostrato che le questioni umane meritano di essere prese in considerazione in qualunque momento della lotta politica, ma nell’aver dimostrato che, grazie alla propria onnipotenza, egli non aveva paura di niente e poteva permettersi qualunque azione prodigiosa.

Qui possiamo anche competere con l’abilità redazionale di saper equivocare sul significato delle parole, semplicemente dicendo che Gesù voleva dimostrare che quanto faceva era in grado di farlo perché «vero uomo»; se poi questa profonda umanità la si vuole considerare equivalente a una forma di «divinità», lo si faccia, ma a condizione di accettare che tale divinità appartenga, virtualmente, a ogni essere umano.

Detto questo, i vv. 38-44 difficilmente si possono ritenere attendi­bili. E per una serie di ragioni. Il redattore:

– ha voluto creare un’atmosfera di particolare tensione facendo di nuovo «fremere» Gesù in se stesso (v. 38);

– ha voluto inutilmente precisare che la tomba era una grotta chiusa da una pietra rotolante, alla maniera ebraica (un ebreo l’avrebbe dato per scontato);

– ha avuto bisogno di ricordare l’informazione contenuta al v. 17, secondo cui era morto da quattro giorni;

– ha immaginato un cadavere avvolto da bende e sudario (secondo il modo di seppellire ebraico) e non si è reso conto che un uomo così conciato non avrebbe potuto uscire da solo dal sepolcro;

– ha rappresentato l’azione scenica in maniera così teatrale da rendere in­comprensibili tutte le precauzioni di riservatezza prese da Gesù fino a quel momento;

– e soprattutto non si è reso conto che al vedere una cosa di questo genere tutti i testimoni sarebbero dovuti uscirne terrorizzati e invece di continuare a credere nel Cristo avrebbero dovuto cominciare a pensare che di umano egli non aveva assolutamente nulla.

Insomma, proprio i particolari che più dovrebbero convincerci del­l’attendibilità degli eventi sono quelli che fanno pensare a una forzata mon­tatura, probabilmente elaborata dopo che i testimoni di quell’episodio erano tutti scomparsi. La chiusa, del tutto fittizia, è analoga a quella dei pani mol­tiplicati (l’espressione liturgica «levàti gli occhi al cielo» del v. 41 è addirit­tura identica). Si può anzi dire che quanto più grande era la volontà di Gesù di prendere delle iniziative di tipo politico, tanto maggiore era la volontà del cristianesimo primitivo di mistificarne la natura. E alla fine questa vo­lontà è talmente grande che la forza degli eventi spettacolari compiuti dal Cristo viene presentata come inversamente proporzionale al valore della fede dei giudei.

I cosiddetti «miracoli», cioè quegli eventi che prescindono dalle umane capacità (almeno per come vengono rappresentati), sono stati utiliz­zati non solo per dimostrare la divinità del Cristo, ma anche per attestare che tra ebrei e cristiani il fossato che s’era aperto dopo la crocifissione del messia, era assolutamente incolmabile. In tal senso essi non solo vogliono circondare di un’aureola divina un personaggio che nel corso della sua vita si comportò in maniera assolutamente umana, ma vogliono anche gettare una luce sinistra su un popolo, quello «ebraico», che viene colpevolizzato proprio in quanto tale.

L’antiebraicità dei vangeli, a tutto vantaggio del filoellenismo, è troppo scoperta perché possa essere condivisa. Se per realizzare una libera­zione politica o, al contrario, se per rinunciarvi definitivamente gli uomini avessero bisogno di credere in eventi e manifestazioni prodigiose, probabil­mente non vi sarebbe mai alcuna forma di emancipazione e noi dovremmo credere che gli ebrei, pur coi limiti del loro nazionalismo e della loro reli­gione, nutrivano sul piano politico delle aspettative molto più interessanti di quel che non si pensi.

*

Come poi le cose siano effettivamente andate è difficile dirlo. Pro­babilmente Lazzaro era un alleato del Cristo, forse aveva tentato una som­mossa non concordata con lui, che in quel momento si trovava in clandesti­nità insieme ad alcuni suoi discepoli. Lazzaro anticipò i tempi, agendo au­tonomamente, e fu ferito mortalmente.

Poiché la frustrazione popolare era stata davvero grande, Gesù de­cise d’intervenire personalmente, rischiando la cattura. Andò a consolare Marta e Maria, assicurando i discepoli di Lazzaro ch’era giunto il momento per l’insurrezione armata a Gerusalemme, nell’imminenza della Pasqua. E chiese la loro collaborazione per preparare l’evento, deciso a Betania. L’ingresso messianico sarà trionfale, poiché né i romani né le guardie del Tempio avranno il co­raggio d’intervenire.

La «resurrezione» di Lazzaro, se in origine era stata scritta in ma­niera «realistica», è sicuramente stata riscritta allo scopo di mistificare la decisione di realizzare la rivoluzione armata. Non era «risorto» Lazzaro, ma l’idea della liberazione nazionale, di cui Lazzaro era stato grande propugna­tore tra i giudei. Era venuto finalmente il momento di associare galilei, sa­maritani e giudei in un obiettivo comune.